1950: il grande inviato dell’Europeo svela i retroscena sulla morte del bandito Giuliano in un articolo destinato a entrare nella storia del giornalismo italiano
In Italia non ci sono molti esempi di giornalismo investigativo. L’inchiesta più famosa è senza dubbio quella realizzata da Tommaso Besozzi per l’Europeo sulla morte di Salvatore Giuliano. Il bandito è stato ucciso a Castelvetrano nella notte del 5 luglio del 1950 in un conflitto a fuoco con i Carabinieri che gli hanno teso una trappola. O almeno questa è la versione ufficiale del ministero degli Interni ripresa da quasi tutti i quotidiani. Tommaso Besozzi va sul luogo del delitto e comincia a ricostruire l’accaduto, smontando pezzo per pezzo la versione ufficiale dei fatti. Il cassetto ripropone integralmente l’articolo.
Di sicuro c’è solo che è morto
Tommaso Besozzi, L’Europeo, 16 luglio 1950
Chi è stato a tradirlo? Dove è stato ucciso? Come? E quando? La grande maggioranza dei siciliani non crede alla descrizione ufficiale del conflitto nel quale ha trovato la morte Salvatore Giuliano. E anche noi dobbiamo confessare di avere inutilmente tentato di mettere d’accordo parecchi particolari di quella relazione con i luoghi, le circostanze, il racconto di chi quella notte vegliava a pochi passi di distanza dal tragico cortile in cui si è svolto l’epilogo dei dramma o è stato svegliato dal fracasso delle fucilate. Tutto ciò si chiamerà forse cercare il pelo nell’uovo, ma l’esame delle incongruenze, dei punti oscuri, dei dubbi che inevitabilmente nascono nella mente di chi abbia tentato sul posto di ricostruire la scena non cesserà per questo di essere interessante.
A Castelvetrano, alle 3 e 15 del 5 luglio, il capitano Perenze, il brigadiere Catalano, i carabinieri Renzi e Giuffrida (dice la relazione ufficiale) hanno riconosciuto da lontano il capobanda mentre assieme a uno dei suoi uomini percorreva la via Gagini. Vistisi sorpresi, i due si sono dati alla fuga in direzioni diverse e il gregario è riuscito facilmente a dileguarsi. Giuliano invece è stato inseguito attraverso le vie della città. Contro di lui è stato fatto fuoco ripetutamente, un proiettile lo ha raggiunto alla spalla, il fuggitivo ha risposto a sua volta con la pistola e col mitra. Giunto in via Mannone, il brigante ha sperato di trovare scampo entrando in un cortile e là, mentre tentava di dare la scalata al muro di cinta oltre il quale c’è un piccolo orto e poi la campagna, è stato freddato con una raffica di mitra dal capitano.
Dunque nessuno poteva immaginare in anticipo che Salvatore Giuliano sarebbe entrato in quel cortile. Eppure parecchi civili delle case confinanti affermano d’aver inteso fin dalla mezzanotte un rumore di tegole smosse e un bisbigliare come se vi fosse gente sui tetti. Stettero un poco in ascolto, ma quello strano trambusto dopo un quarto d’ora si chetò.
Nessuno diede peso alla cosa e di lì a poco in via Mannone tutti ripresero a dormire, eccetto tre uomini che per le esigenze del loro mestiere dovevano già essere a bottega: il proprietario e i due garzoni del forno Lo Bello, che è sullo stesso lato della strada, a venti metri dall’ingresso del cortile.
Era una notte afosa, e nell’interno del panificio il caldo era insopportabile. I due garzoni che avevano finito di impastare il pane e aspettavano che lievitasse erano usciti sulla via e stavano chiacchierando accovacciati sul marciapiede, con le schiene nude appoggiate agli stipiti. Ma la prima sigaretta che essi avevano acceso non era ancora finita quando due carabinieri, spuntando dall’ombra, si avvicinarono e intimarono loro di ritirarsi e di sprangare porta. L’ingiunzione era stata fatta con il tono di chi non ammette repliche. Ci furono invece discussioni e proteste, ma non valsero a nulla. Di fronte al dilemma o chiusi in bottega o in guardina non era certo il caso di indugiare troppo nella scelta. I garzoni obbedirono.
E’ molto probabile tuttavia che il mattino seguente le clienti del fornaio Lo Bello abbiano trovato da ridire sulla confezione del pane. La curiosità di sapere quello che stava per accadere sulla strada non poteva certo permettere al panettieri di attendere con diligenza al consueto lavoro. Avevano lasciato i battenti un pochino socchiusi e di tanto in tanto andavano ad origliare. Così non sarà esagerato dire che l’aria lacerata dal primo sparo vibrava ancora quando gli occhi dei fornai erano già incollati alla fessura.
Sembrò loro che la via fosse deserta. Questa impressione però è di scarsa importanza perché durante la notte l’illuminazione della periferia di Castelvetrano viene ridotta e le poche e fioche lampadine che restano accese riescono a proiettare solo un piccolo cerchio di luce al centro della strada. Non videro dunque entrare nessuno nel cortile. Scorsero invece un uomo che ne usciva, che passò correndo sotto un lampione. Lo videro di spalle per un attimo e tutto quello che seppero dire di lui è che si trattava di un uomo forse giovane, tarchiato, che camminava a piedi nudi. Ma vedremo dopo quale parte attribuisca la fantasia popolare a questo personaggio.
La via Mannone parte dalla piazza del mercato, taglia in linea retta il rione orientale del paese e finisce nella campagna. Nel tratto che va dal mercato al cortile non ci sono trasversali. Da che parte ci arrivò Giuliano fuggendo da via Gagini? Dal mercato dopo aver attraversato la piazza della torre dove sono ininterrottamente di fazione due agenti, dal corso dove a qualunque ora c’è sempre gente scamiciata che passeggia, dal verziere dove c’è un grande negozio di fruttivendolo che resta aperto tutta la notte con le luci accese e dove attorno ai banchi e ai cumuli di ceste che non vengono mai rimossi passeggiano continuamente i guardiani?
Evidentemente no, perché nessuno ha visto né lui né gli inseguitori. Allora è venuto dalla via Gioberti, che è dalla parte opposta, e, giunto al crocicchio di dove poteva scorgere davanti a sé le prime siepi e i primi alberi della campagna, ha piegato invece in via Mannone verso il centro del paese. L’illogicità di questa decisione stupisce molti. Il lettore tuttavia non ci faccia troppo caso perché sono tante le ragioni che possono avere spinto il fuggitivo ad abbandonare la via più facile per quella più rischiosa. E’, stato detto piuttosto che la sparatoria era cominciata in via Gagini ed era continuata da una parte e dall’altra lungo tutto il percorso. Ma per quanto si siano interrogati molti abitanti di quella zona, non si è trovato nessuno che ricordasse di aver udito un solo sparo. Eppure le finestre erano spalancate per il caldo opprimente. La notte in quel rione è silenziosa. Una pistolettata o una scarica di mitra avrebbero dovuto destare anche chi ha il sonno più duro.
Gli abitanti di via Mannone invece hanno sentito. La loro testimonianza però è in contrasto con la versione ufficiale.
Questa dice che il brigante esplose 52 colpi col moschetto mitragliatore, che al cinquantatreesimo si inceppò. Giuliano buttò a terra il mitra quando era già nel cortile e impugnò la pistola, ma il capitano dei carabinieri lo prevenne scaricandogli addosso per primo un intero caricatore del suo Thompson. Gli spari insomma avrebbero dovuto susseguirsi in questo ordine: raffiche di mitra più o meno lontane (Giuliano che spara sulla strada), altra raffica dopo una pausa di silenzio (Perenze che fa fuoco all’ingresso del cortile); subito dopo forse qualche colpo di pistola (Giuliano che, prima di stramazzare a terra, tenta l’ultima difesa), forse il Thompson che risponde ancora (Perenze che ha innestato il caricatore nuovo). Invece gli abitanti di via Mannone (trascureremo i nomi della gente minuta facile ad accettare ed a ripetere come esperienza propria il racconto altrui e citeremo soltanto il pretore di Castelvetrano, avvocato Giovanni De Simone, e il colonnello a riposo Santorre Vizzinisi) sono unanimi nel ripetere che si sentirono prima cinque o sei colpi di pistola sparati sotto l’arco di ingresso o nel cortile, poi due raffiche di mitra distanziate da un breve intervallo. Subito dopo si udì la voce dei capitano che gridava a qualcuno di portare un po’ d’acqua per il ferito e il furioso martellare col calcio del moschetto alla porta dell’unica abitazione che si apre sul cortile. Parleremo in seguito dell’interpretazione che la fantasia dei diffidenti siciliani dà a questo particolare. Sarà bene tuttavia citare sin d’ora l’obiezione più comune: che i feriti siano tormentati dalla sete è una di quelle nozioni elementari che anche il più rozzo dei pastori possiede. E’ tra l’altro un vecchio motivo della retorica popolare. Ma questa arsura viene immediatamente, appena uno è colpito, oppure è conseguenza del dissanguamento, della febbre provocata dalle ferite e sopraggiunge dopo un certo periodo di tempo?
E perché Giuliano non aveva un soldo addosso? Perché portava una semplice canottiera, lui così ambizioso e, a suo modo, elegante? Perché non aveva l’orologio al polso, quel grosso cronometro d’oro per il quale aveva una bambinesca affezione e, lo hanno testimoniato molti, era l’ultima cosa che si togliesse coricandosi, la prima che cercasse al risveglio?
C’erano poi altri particolari che alimentavano il dubbio e, apparentemente, con maggior evidenza: alcune ferite, specie quella sotto l’ascella destra, sembravano tumefatte come se risalissero a qualche tempo prima; altre erano a contorni nitidi e apparivano più fresche.
Due o tre pallottole lo avevano raggiunto al fianco e avevano prodotto quei fori grandi a contorni irregolari tipici dei colpi sparati a bruciapelo; altre erano entrate nella carne lasciando un forellino minuscolo perfettamente rotondo. Il tessuto della canottiera appariva intriso di sangue dal fianco alla metà della schiena, e sotto quella grossa macchia (aveva oltre due palmi di diametro) non c’erano ferite. Era logico pensare che il corpo del bandito anziché bocconi fosse rimasto per qualche tempo in posizione supina, perché tutto quel sangue doveva essere sgorgato dalle ferite sotto l’ascella e certamente era sceso, non poteva essere andato in su.
Da Trapani a Sciacca, a Santa Ninfa, a Partanna non c’è uno che non sorrida quando gli si parla del famoso furgone sul quale gli uomini del colonnello Luca travestiti da cinematografari percorrevano le campagne e sostavano nei paesi fingendo di girare un documentario, perché Salvatore Giuliano, tradito dall’ambizione e dalla smania di pubblicità, lasciasse le sue montagne e cadesse nella trappola.
Per quanto avesse incollate su una fiancata due grosse strisce con le scritte: Gazzetta dello Sport, Il Paese, e su una terza striscia di carta dipinta a mano che attraversava di sbieco il lato opposto si leggesse: Le avventure di Paperino, tutti, anche i ragazzini, sapevano che si trattava di una radiotrasmittente mobile della polizia capace di collegare Trapani a Palermo. Cosa che tra l’altro era dimostrata con evidenza dall’antenna molto alta che non si poteva certo né sopprimere né camuffare. Proprio Giuliano avrebbe dovuto lasciarsi ingannare da un trucco così grossolano?
E allora? E’ forse possibile rispondere alle domande che sono state poste al principio del discorso? Si può tentare. Per un buon tratto di strada anzi cammineremo su terreno sicuro e, quando usciremo dalla realtà della cronaca per riferire le congetture che molti fanno, avvertiremo onestamente il lettore.
E’ certo che non si manca affatto di rispetto al colonnello Luca né a chi sulla scala gerarchica sta più in alto o più in basso di lui dicendo che la relazione ufficiale sulla morte di Salvatore Giuliano è camuffata, reticente su certi punti, su altri imprecisa. Poco o molto, tutti i rapporti che la polizia rende noti al pubblico devono essere necessariamente così. Vi sono circostanze che non possono essere rivelate, promesse che è giusto mantenere, uomini che bisogna salvare dalla vendetta. Perfino davanti al giudice e nei casi più gravi la legge concede al funzionario di polizia il diritto di tacere la verità: quando gli si chiede il nome del confidente, di chi lo ha messo sulle tracce, lo ha aiutato a formulare l’accusa, ad arrestare il colpevole.
Il furgone con l’etichetta Le avventure di Paperino non ha nessuna parte nel dramma. Il più grande aiuto allo sterminio della banda di Montelepre e del suo capo è venuto dalla mafia, ed è chiaro che ciò non significa affatto che la polizia abbia sollecitato o anche soltanto incoraggiato quell’aiuto. Un’alleanza tra Giuliano e i mafiosi era nata naturalmente al principio della carriera del brigante. Turiddu aveva bisogno dell’appoggio dell’onorata società e a quegli altri era comodo speculare sulla paura che il nome del brigante incuteva. Ma poi i capimafia, che erano stati i primi esattori della banda, esagerarono. Imposero riscatti che erano cinque volte superiori a quelli che il bandito intendeva richiedere e intascarono la differenza.
Cominciarono a molestare, sempre trincerandosi dietro quel terribile nome, alcuni che avevano resi grossi servigi a Giuliano e che ne avevano avuto promesse di protezione. Il contrasto si aggravò al punto che Turiddu, assieme a pochi dei suoi uomini, tra i più fedeli, scese sulla piana di Partinico e in pieno giorno vi uccise a pistolettate i più alti capi dell’associazione criminosa e segreta. Le vittime non avevano però un grosso prestigio oltre l’ambito del loro paese, perché oggi non esiste più una mafia unica che abbia giurisdizione su tutta l’isola, ma tante mafie locali autonome e spesso nemiche.
Il brigante sperava di giocare su queste rivalità territoriali e in parte ci riuscì: infatti fu condannato a morte dalla sola mafia di Partinico, mentre sembrò che continuassero ad essergli amiche; e invece era soltanto una maniera di temporeggiare aspettando il momento opportuno per liberarsi di lui. Per cinque anni i rapporti tra le due della delinquenza siciliana seguirono così alterne vicende: Giuliano, per tenersi buoni quei pericolosi vicini, si buttò talvolta in imprese rischiose dalle quali non avrebbe potuto trarre un utile diretto (tra le altre si dice l’eccidio Portella della Ginestra); la mafia gli guardò le spalle, lo garantì dalle delazioni. Ma è difficile che due galli nello stesso pollaio possano vivere l’uno accanto all’altro senza cavarsi gli occhi. L’equilibrio era mantenuto soltanto dalla straordinaria potenza di Giuliano. Il giorno che questa decadde, la sentenza di Partinico fu omologata e sottoscritta da tutte le mafie.
Si voleva perdere Giuliano, ma era sempre rischioso mandargli un sicario secondo il classico sistema. Per farlo cadere cominciarono a togliere la protezione ai suoi rompendo la legge dell’omertà. Imposero che quelli della banda, ovunque fossero, dovessero segnalati alla polizia.
Così a uno a uno furono arrestati molti dei fuorilegge, i più sicuri scherani della banda di Montelepre. Quasi sempre chi si lasciava scappare una preziosa confidenza non era affiliato alla mafia, ma era costretto dalla mafia ad ingoiare la paura e a farsi delatore.
Il 27 giugno scorso, poco prima di mezzogiorno, un carrettiere mafioso che percorreva la provinciale per Trapani con un carico di pomodori, giunto in località Lozucco, a pochi chilometri da Partinico, vide sbucare da un cespuglio due uomini che gli mossero incontro e gli intimarono di fermarsi. Erano Frank Mannino e Nunzio Badalamenti, l’amministratore e il più spietato sicario della banda Giuliano che ormai poteva disporre di non più di sette od otto gregari. I tre si conoscevano da tempo, perché il carrettiere aveva avuto modo in passato di rendere qualche servigio ai briganti. Mannino e Badalamenti erano usciti dal nascondiglio avendo appunto ravvisato in lui un amico.
Domandarono: Va verso Castelvetrano vossia?. L’uomo rispose di sì. I briganti gli chiesero allora di nasconderli sul carro e di portarli fino alle porte del paese. Così furono vuotate due ceste (quelle che si usano in Sicilia per il trasporto dei pomodori sono molto grandi, a trono di cono, alte un metro e cinquanta e larghe altrettanto).
I banditi vi si accovacciarono dentro e furono coperti con pomodori. Là sotto è chiaro che riuscivano a respirare ma non potevano certo vedere. E di lì a poco, quando sentirono il cavallo fermarsi, accettarono per vere le rassicuranti spiegazioni del carrettiere. Il veicolo invece si trovava in quel momento davanti alla caserma dei carabinieri di Alcamo e non è necessario dire come finisse la storia. La polizia tenne segreto l’accaduto. Giuliano non seppe che altri due dei suoi uomini erano caduti in trappola.
Ora bisognerà passare sul terreno delle congetture. Mannino e Badalamenti andavano a Castelvetrano. A fare che cosa? Conoscendo l’epilogo di questa storia, è facile arguire che ci andassero convocati dal loro capo e quindi che sapessero dove questi si teneva nascosto. In carcere possono essere stati indotti a cantare. Uno dei due (Mannino?) può essersi lasciato convincere a tradire il suo capo, a consegnarlo vivo o morto. Ecco chi era il compagno di Giuliano la notte del 5 luglio; e che si sia parlato di quella sua misteriosa scomparsa subito dopo l’avvistamento della pattuglia, è cosa ovvia. Può darsi invece che la verità sia un’altra. Il traditore non si sarebbe affatto allontanato dal suo capo, ma gli sarebbe stato al fianco facendogli da guida. Lo ha portato in trappola nel luogo prestabilito, dove i carabinieri lo attendevano in agguato. Giunti i due sulla soglia del cortile, la situazione si faceva oltremodo difficile e pericolosa: se la guida continuava a stare vicino al capo, c’era modo di finire sotto le pallottole degli agenti; se proprio in quel momento tentava di sganciarsi da lui, c’era caso che, intuendo il tradimento, Giuliano facesse fuoco su di lui. Il modo migliore di cavarsela per un’anima perversa era di sparare a bruciapelo con la pistola sul capo.
Ecco così spiegata la sequenza dei colpi, le ferite più grosse, slabbrate, al fianco, l’ombra che esce di corsa dal cortile e si avvia verso la campagna, dove l’attende un’auto della polizia: è comprensibile la sua fretta di tornare in carcere.
Ma la grossa macchia di sangue sulla schiena, la tumefazione di alcune ferite e la freschezza di altre, l’essere Giuliano in maglietta, senza denaro e senza orologio, sono circostanze che non si spiegano affatto con questa storia.
Allora facciamo un passo più in là e ascoltiamo le congetture di qualcuno a cui non piace di mettere il morso alla propria fantasia. Mannino o Badalamenti, o chiunque sia stato il traditore, entrò nella camera dove era nascosto Salvatore Giuliano, ma gli mancò il coraggio di svegliarlo e di condurlo fuori.
Preferì sparargli a bruciapelo nel sonno. Poi, si sa: a nessuno poteva far piacere che si venisse a conoscere un così brutto episodio.
Forse anche colui che ospitava il brigante era a parte del primitivo progetto, aveva aderito a facilitare la cattura e non si poteva ripagarlo lasciandogli in casa il cadavere (quel cadavere) fino al momento in cui sarebbero venuti il giudice, i fotografi, i becchini.
Allora lo portarono nel cortile di via Mannone. Spararono. Il capitano andò a bussare alla porta e gridò che gli portassero acqua per un ferito, perché tutti sentissero che Giuliano non era morto ancora.
Queste storie si sentono raccontare a ogni ora dei giorno e della notte per le strade della Sicilia.
E’ difficile accettarle. Però uno che sia stato sul luogo, che si sia chinato a guardare il corpo di Salvatore Giuliano steso bocconi in mezzo al cortile, che abbia chiacchierato un poco con la gente di via Mannone, è costretto, di tanto in tanto, a pensarci.