Intervista a Mario Perrotta

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Incontriamo l’autore, attore e regista del progetto teatrale “Italiani Cincali”

Mario Perrotta, 34 anni di Lecce è autore, attore e regista di un toccante progetto teatrale: Italiani Cìncali, ora in tournée in Italia. Il progetto-spettacolo è composto da due capitoli: Minatori in Belgio e La Turnàta, costruiti entrambi, attraverso un lungo lavoro di ricerca, sulle testimonianze di chi ha vissuto l’emigrazione dalla Puglia verso il nord Europa.

“Cìncali”era l’appellativo con cui gli svizzeri chiamavano gli emigrati italiani che pensavano significasse zingari, invece pare fosse una storpiatura di “cinq” cinque, nel linguaggio degli emigranti padani che giocavano a morra.

Come nasce il progetto Italiani Cìncali?
E’ nato per l’esigenza personale di riallacciarmi alla mia terra, la Puglia, dopo una lunga assenza. Ho pensato che gli emigrati avessero la distanza giusta per potermela raccontare, perché chi ci vive costantemente è presbite, è troppo attaccato all’oggetto. Chi se n’è andato oltreoceano è miope, mentalmente e affettivamente distante. Forse la vista giusta ce l’hanno gli emigrati del nord Europa che non abitano la terra, ma nello stesso tempo ce l’hanno a portata di mano.
Inoltre dai 10 ai 13 anni ho vissuto ogni mese un’esperienza particolare: affidato a famiglie di emigranti, andavo a Bergamo, dove risiedeva mio padre, a curarmi i denti. Viaggiavo su treni espresso affollatissimi e raccontavo tutto quello che mi pareva, inventavo i mestieri di mio padre e mia madre, per me era la prima forma di teatro. La paura era tanta, quando andavo da Lecce al “mostro di ferro” della stazione di Milano, mentre tornare a Lecce non mi faceva paura, perché anche se non avessi trovato nessuno, sarei riuscito ad andare da solo a casa di mia nonna. Come fa un bambino, ho incamerato sguardi, racconti, emozioni di questa gente e quell’esperienza mi è tornata addosso, quando mi è venuta l’idea di chiedere agli emigranti come vedono quella terra.

Per quanto riguarda la regia, hai voluto ricalcare quella che è diventata ormai una tradizione: il teatro di narrazione: una sola sedia su un palco vuoto, le voci registrate?
Questi sono stilemi che hanno creato gli addetti ai lavori dall’esterno. Avevo bisogno di essere solo in scena. Erano talmente forti le parole, i concetti e la forma del raccontare le cose che non accadono hic et nunc, ma sono accadute, che non si poteva aggiungere altro.
Il postino racconta Minatori in Belgio, Nino la Turnàta, ma fondamentale è che mi calo in due personaggi ben distinti, seppure io interrompo e do voce a me stesso con dei numeri e dei dati per ancorarli alla storia.
Quali sono le vere corrispondenze tra me, Marco Paolini, Marco Baliani, Laura Curino, Davide Enia, Ascanio Celestini? Il non avere niente in scena e che spesso loro salgono come loro stessi e raccontano, ma le scritture sono completamente diverse, come le modalità del dire.
Non condivido il parallelo teatro civile o d’impegno con questi nomi. Ci sono delle affinità, ma la vera valenza di questi attori è che hanno trovato uno stile teatrale che li rende speciali. La mia è una forma molto ibrida: metto insieme la mia esperienza di attore a quella del racconto. Ho dato voce a due personaggi che stanno seduti su una sedia, poi la mia mozione interiore e personale ha avuto come effetto collaterale l’impegno civile, la memoria, ma non è ricercato. Se fosse vero il contrario, basterebbe un’inchiesta per fare teatro e non è così. E’ fondamentale avere dei mezzi teatrali e partire dalla necessità di un’emozione profonda. Perlomeno questo è il mio teatro.

Allora non ti muovi solo su questa forma di teatro, un domani farai Shakespeare?
Assolutamente sì ho alle spalle 12 anni di gavetta con la mia compagnia e con altre compagnie, anche classiche, come Rossella Falk, Glauco Mauri. Ho fatto Il mercante di Venezia con la regia di Elio De Capitani che si interroga sull’oggi attraverso Shakespeare e dell’oggi parla Il misantropo di Moliere che prima o poi metterò in scena.

Riflessioni sull’emigrazione che hai tratto dal tuo lavoro?
Una delle riflessioni più amare, dopo 4 anni di lavoro sull’emigrazione è che chi ha avuto quell’esperienza come emigrato italiano, oggi è uno dei più feroci oppositori rispetto alla gente che arriva da noi con le loro stesse emozioni e mi sono chiesto: perché sono immemori? In realtà non lo sono per nulla, la spiegazione più diretta me l’ha data Med, un ragazzo tunisino, che dice una cosa fondamentale: “Uno schiavo quando avrà la libertà tenderà sempre a schiavizzare qualcun altro”.
Puntualmente persone che mi hanno commosso con le loro storie, che mi hanno mostrato un’umanità dolcissima e amarissima, alla domanda: “Che ne pensate delle persone che oggi arrivano qua?”. Hanno risposto: “Questi vengono qua, vogliono rubare, noi eravamo diversi”. C’è un assenza di senso critico, perché quasi sempre sono persone con un basso livello culturale, però chi l’ha provato sulla propria pelle dovrebbe riflettere due volte prima di dire una cosa del genere.

Ma quando glielo fai presente loro che dicono?
Se li metti con le spalle al muro e gli chiedi:” Ma lei che è andato a fare in Belgio?” “Andavo a fare i lavori che i Belgi non volevano fare più”. Li fai arrivare a quello che sarebbe giusto pensare, però l’istinto naturale è quello di far pagare a un nuovo debole quello che hanno subito, come i bambini violentati dai genitori, tendenzialmente lo rifanno.

Nello spettacolo, si parla di emigrazione, ma si arriva a delle verità universali, l’uomo è un animale alla fine…
Io sono assolutamente hobbesiano, contano le dinamiche animali, ma anche quelle sociali. Molte persone si fanno spaventare dalla televisione, dai giornali che parlano sempre dell’albanese che ha ucciso e non di tutti gli altri che lavorano nelle campagne. Il fatto che mi stupisce è che i nostri emigrati leggevano le stesse descrizioni sui giornali belgi: italiani sporchi, facili al coltello, che delinquono, che rubano il pane ai nostri figli, ma questo non fa loro aprire gli occhi sui nuovi arrivati.

La maggioranza la pensa così? Più quelli che l’hanno vissuto o c’è una differenza con chi non l’ha vissuto?
Quasi uguale, ma la stragrande maggioranza comunque, tranne quando strumenti culturali acquisiti nel tempo e il percorso personale di vita hanno permesso di discernere con più attenzione. La maggior parte di loro aveva la quinta elementare, però mi aspettavo che la loro umanità potesse parlare. E’ una situazione amarissima quella dei meridionali emigrati al nord: gente che ha subito tali frustrazioni e vessazioni nella vita che per reazione, per sentirsi milanese, torinese, veneto o svizzero o belga, sputa sui nuovi arrivati. Un meridionale che è andato a lavorare alla Fiat negli anni ‘50 ha i figli che sono i peggiori razzisti, quelli che votano Lega e dicono che quelli del sud sono delle bestie. Perché? I figli in una situazione drammatica anche loro rifiutano la condizione dei genitori, per la quale venivano presi in giro a scuola. All’estero li rifiutano per sentirsi integrati.
Ho intervistato emigranti in svizzera che a tavola con i propri figli non parlano, perché i figli parlano in tedesco e non vogliono parlare italiano, per rifiuto verso le origini del padre. La madre gli diceva: “Parlate italiano, sapete che vostro padre non lo capisce il tedesco” e loro rispondevano: “Ma noi siamo svizzeri”.
Chi risolve il problema di solito è la terza o la quarta generazione. Ho conosciuto quarte generazioni di immigrati negli Stati Uniti negli anni ‘20 che hanno creato associazioni, che sono voluti tornare qui per ricostruire le loro origini. Ho incontrato un attore belga più giovane di me che vuole fare Italiani Cìncali in francese; ha scoperto solo adesso di avere un nonno calabrese, perché il padre, seconda generazione, non gliel’aveva mai detto. E vuole andare in Calabria a vedere dove è nato suo nonno.